CAPITOLO IV

CREPUSCOLARI E FUTURISTI

D’Annunzio e Pascoli rappresentano un momento decisivo nella storia del decadentismo italiano: sono i primi grandi poeti della poesia nuova, ed influenzano, o direttamente o per la reazione che suscitano, gli scrittori del primissimo Novecento. Ché, oltre al pascolianesimo e al dannunzianesimo piú patenti, molti motivi dei crepuscolari e dei futuristi vanno ricercati proprio in quel D’Annunzio e in quel Pascoli cui i poeti giovani dicevano di ribellarsi.

Ambedue restano individuati di fronte agli europei da un forte provincialismo, nel Pascoli neppure volontariamente ripudiato, nel D’Annunzio subíto malgrado la cultura e l’intenzione cosmopolita. E dagli europei li distingue essenzialmente la loro scarsa intellettualità, quella certa semplicità istintiva che si rivela anche sotto le forme fastose degli scritti dannunziani piú scaltri.

Essi, basando la loro poetica soprattutto sulla sensazione e sulla poeticità delle cose, sbloccano definitivamente la mentalità tradizionale della forma decorosa, anche se in questo senso il D’Annunzio pare piú letterato, piú involto in esigenze auliche, elette. Ma in realtà si tratta di estetismo, non di aristocrazia tradizionale, e le sue cose piú grandi sono nate dal piú diretto connubio di una sensibilità e di una poetica schiettamente decadenti: la costruzione tutta nuova ed anticlassica della Sera fiesolana.

Il D’Annunzio e il Pascoli rappresentano soprattutto il prevalere della lirica come genere, un’aspirazione, questa, salita da tutto il romanticismo. Cosa significa infatti la tendenza a ripudiare le altre forme come poesia applicata, nel Pascoli, e quella a far sempre prosa poetica, una prosa che non è prosa, nel D’Annunzio? Il decadente infatti non ammette che la lirica, l’espressione immediata del proprio io, in cui d’altronde convergono radicalmente tutte le cose e il mistero del mondo. Il decadente non può ammettere la costruzione in senso classico, una nuova Divina Commedia, e, se costruirà, mirerà consapevolmente ad una collana di gioielli, di pezzi di bravura, e insisterà sempre su valori strettamente lirici, anche a costo di falsarli e gonfiarli senza passione, come fa appunto spesso il D’Annunzio nella Laus Vitae.

Anche il Croce si inserisce, per quanto egli giustamente dal suo punto di vista protesti, in questo momento di ipervalutazione della lirica, e contribuisce, nel modo storto con cui viene in certi casi assimilato, ad acutizzare nei poeti il senso critico, la creazione aposterioristica, che tende quasi ad eliminare il compito discriminativo del futuro critico. Si può dire che, dopo la confusione del periodo predannunziano, si è arrivati ad un momento di consapevolezza, di chiarificazione del problema della nuova poesia italiana, dovuto alla teoria crociana e all’esempio, alla poesia del D’Annunzio e del Pascoli. Essi, alle vaghe aspirazioni dei poeti della fine del secolo oppongono una realizzazione concreta, nuova, coerente. Donde la prepotenza del loro dominio, la loro quasi provvidenzialità.

Il D’Annunzio ha falsato l’europeizzamento della nostra letteratura vestendolo del proprio estetismo. Quanto al Pascoli, egli ha fatto sentire come oramai, a parte ogni influenza e imitazione, indigenamente la atmosfera fosse cambiata, come la ricerca poetica dovesse orientarsi anche da noi sulla sensazione, sui valori musicali; ha dato, insomma, alla libertà dalla tradizione un senso non di ribellione, ma di novità, di superamento. Hanno entrambi portato i tentativi di europeizzamento, di modernità (e lo vedremo subito coi crepuscolari), su un altro piano da quello degli scapigliati o dei veristi betteloniani, che si sentivano ossessionati dalla solenne tradizione e riprendevano invano il primo romanticismo italiano o i romanticismi stranieri.

Ora i poeti sanno di avere già un’altra tradizione impersonata nel Pascoli e nel D’Annunzio, che in questo senso formano come il grandioso parapetto della nuova poesia italiana. Se l’estetismo dannunziano ha avuto diffusione maggiore ed è coinciso con una forma snobistica di vita, il Pascoli è stato piú sotterraneo ed inesorabile, appunto per la sua minore vistosità: Cecchi nel ’12 lo chiamò «un precursore».

Facile sarebbe distinguere i diversi motivi della importanza dannunziana e pascoliana per la nostra letteratura, ma ad ogni modo basta constatare la sicurezza da essi data ai lirici contemporanei di essere su di un nuovo e concreto piano poetico, un risultato di poetica non codificato, ma sentito, e un’esperienza della letteratura europea filtrata attraverso una sensibilità nostrana.

Pascoliani e dannunziani in senso largo sono dunque un po’ tutti gli immediati contemporanei dei due poeti, in quanto si servono della loro assicurazione, della loro esperienza per arrivare ad una modernità, ad una certezza di gusto, cui i precedenti artisti non erano arrivati.

Solo dopo la loro affermazione si può parlare di un positivo clima decadentistico in Italia, ed è solo dopo di essi che si possono formare appunto le due correnti piú notevoli del primissimo Novecento: i crepuscolari e i futuristi.

Ad occhio e croce si potrebbe sentire che i crepuscolari son piuttosto dei pascoliani e i futuristi dei dannunziani, ma in realtà, ad un esame attento, le due correnti si trovano proprio discendenti da una stessa progenitura, da un insieme di Pascoli e D’Annunzio mal distinguibile internamente.

Pascoli e D’Annunzio, malgrado le loro diversità, diventano quasi un’epoca poetica, una tradizione cui i nuovi poeti si riattaccano, sceverandola rapidamente nei suoi motivi piú assimilabili.

***

Visti in una storia del decadentismo italiano, i crepuscolari e i futuristi significano, dopo l’estetismo dannunziano e il pascolianesimo, una risoluzione dei due grandi poeti in una diffusa civiltà, una prosecuzione esasperata delle loro poetiche, e insieme come un aggiornamento della loro sensibilità su quella tipicamente decadente europea, ormai piú diffusa in Italia. Perché è coi crepuscolari e i futuristi che la conoscenza dei francesi e dei decadenti in genere diventa piú familiare e comune in Italia, anche se non arriva a quel punto di comprensione, che costituisce per noi la distinzione del pieno Novecento.

è proprio da un breve esame della cultura e delle simpatie dei crepuscolari, che siamo introdotti nella loro sensibilità, nella loro poetica, nel loro ideale di realizzazione e di poesia. Se fra gli italiani essi risentiranno i lontani echi della poesia del Betteloni o dello Stecchetti, soprattutto vale per la loro formazione (oltre gli stranieri di cui parleremo) la presenza del Pascoli e del D’Annunzio del Poema paradisiaco.

Quello che per il D’Annunzio fu un esperimento e un momento di stanchezza, divenne per molti dei crepuscolari il mondo, la vita quotidiana. Ma come accettano il Poema paradisiaco? Il decadentismo dannunziano, anche nel Poema paradisiaco, è sempre una letteratura modernamente cortigiana, con un linguaggio eletto e una sensibilità non disposta ad emozionarsi se non per situazioni di eccezione, in un clima supremo, schivo del quotidiano e del banale. Invece il decadentismo dei crepuscolari è piú accogliente, e costituisce anzi una reazione alla pompa dannunziana, allo snobismo dannunziano d’animale d’eccezione, e si avvicina alla eredità pascoliana delle piccole cose e della poesia del familiare. Nel Poema paradisiaco non sono ammesse che sensazioni rare, atteggiamenti squisiti; e l’hortus conclusus non si sarebbe mai rassegnato a diventare quel «giardino dei frutti» di Moretti, in cui sono ospitati «nani peri ineleganti (...) qualche ciuffo d’uvaspina...»[1]. Anche le beghine di prammatica, in D’Annunzio, sono creature per cui il massimo grado spirituale è la fruizione del «benjoin et l’encens», non le beghine di Palazzeschi cui si può impunemente dire:

Viveste, perché vive eravate;

che cazzo riparate, scimunite?

(Monastero di Maria Riparatrice)

I crepuscolari sono perciò proprio la reazione alla distinzione dannunziana e la ripresa, con altra coscienza, del tentativo prosastico del verismo. Sembrano cosí soprattutto discendenti (per quanto lontanissimi come individualità, come tempra) del Pascoli, della poetica del Fanciullino, del valore poetico delle cose. C’è per essi nel Fanciullino una frase molto significativa: «intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri sogliono spregiare, non di chi non la trova lí e deve fare sforzo per cercarla altrove».

Pare proprio che i crepuscolari abbiano voluto attuare nella loro poesia questo presentimento pascoliano e l’abbiano portato sino alle ultime conseguenze, arrivando a considerare senz’altro poetico tutto ciò che «gli altri sogliono spregiare». Le «cose» del Pascoli diventano le «piccole cose», le «buone cose di pessimo gusto» di Gozzano, le «povere piccole cose» di Corazzini. E il fanciullino diventa bisogno psicologico, veduto, retorico: «è una cosí dolce cosa la paura, appunto perché è dei fanciulli» (Corazzini). Questa derivazione della poetica crepuscolare da quella del Pascoli nella parte piú decadente della sua poesia non mi sembra sia stata vista sufficientemente dalla critica, mentre nel nostro studio assume un’importanza fondamentale: significa che i crepuscolari derivano soprattutto da una paternità indigena, che esasperano, modificano, secondo il loro gusto e la maggiore esperienza decadente.

Basta vedere del resto che tono acquista un verso pascoliano inserito in una poesia del Corazzini, per capire in che senso i crepuscolari hanno accettato la poetica pascoliana:

... E giovinezze erranti per le vie

piene di un grande sole malinconico,

portoni semichiusi, davanzali

deserti, qualche piccola fontana

che piange un pianto eternamente uguale

al passare di ogni funerale...

(Toblach)

Espressioni pascoliane come «cuore del mio cuore» diventano:

luce degli occhi, cuore del mio cuore,

tenerezza, sorella nel dolore,

(Invito)

acquistano una lentezza, che è l’anima di questa poesia stanca, smagata. Non un canto interiore, ma un modo poetico che riflette, nella sua apparente superiorità, un movimento tutto psicologico, sentimentale. E cosí un esame della formazione culturale di questi poeti chiarisce la loro speciale posizione nella nostra letteratura, il loro decadentismo originale e pure coerente al clima formatosi col D’Annunzio ed il Pascoli.

Difficile è distinguere il contributo portato dalla vicinanza dei vari poeti francesi, e piú interessante è notare come i crepuscolari si siano volti esclusivamente a decadenti provinciali, a decadenti poco complicati intellettualmente, su di una linea tra ingenua, abbandonata e amara, ironica (Jammes, Verlaine, Rodenbach, Maeterlinck, Guérin, Samain, Laforgue, i piú lontani cioè da Mallarmé e Rimbaud).

Si sa che le famose influenze sono, almeno inizialmente, preferenze, e nel caso dei crepuscolari, piú che l’influenza diretta, si può valutare l’esempio e l’aiuto per arrivare ad una coscienza decadente. I poeti che i crepuscolari piú potevano capire sono i poeti intimisti, provinciali come Jammes e soprattutto i fiamminghi.

Questi ultimi hanno un carattere di terroir che li accomuna (a spezzare un verso di Maeterlinck, uno di Rodenbach, uno di Elskamp, si trova lo stesso sapore dolciastro, la stessa sensazione slavata) e che affonda il loro decadentismo come in una qualità nazionale, in un tempo spirituale della stirpe. Quindi in essi i béguinages, i fiumi sonnolenti, le cattedrali a vetrate, sono non un vezzo di letteratura, ma un’esperienza intima, la propria natura.

I crepuscolari invece prendono di riflesso quel paesaggio e ne fanno un loro paesaggio, una loro nostalgia letteraria, senza impeti romantici, a volte quasi scherzosa. Questa predilezione per la Fiandra sembrerebbe contrastare con la poetica delle cose solite e vicine, ma in fondo le si ricollega per quella patina di umiltà e di indifferenza accorata, che la monotonia del paesaggio fiammingo e la quotidianità della vita comune possono parimenti possedere. Anche la poesia di Francis Jammes rientra nella cultura dei crepuscolari e ci spiega benissimo il loro gusto, le loro intenzioni: quel che di cilestrino, di lamartiniano decadente che c’è nel poeta delle Géorgiques chrétiennes è ciò che piace ai crepuscolari, e il suo campagnolismo, il suo idillismo è risentito mediato, nostalgia di idillio. Li impressiona anche in lui la fluidità estrema dei versi che arriva all’apparenza della facilità prosastica:

C’est la première fois que j’envoie à la mort

ces lignes que t’apportera, demain, au ciel

quelque vieux serviteur d’un hameau éternel,

e l’andamento che non si sa se è spigliato o impacciato, certo molto intimo:

Je parle. Tu souris d’un serieux sourire.

Le temps n’existe pas. Et tu me laisses dire.

Le soir vient.

Non sono insomma degli imitatori di Francis Jammes, ma quasi si servono della sua poesia come del paesaggio fiammingo, come dei temi offerti al loro repertorio. Non lo assimilano quindi e non si curano di capire la radice del suo tono.

Cosí anche per l’ironia spirituale di Laforgue, cosí per Samain, che amano per la falsa bucolica, cosí per Verlaine. Di Verlaine non si può non citare per i crepuscolari qualche punto dell’Art poétique. Cosí la strofe seconda:

Il faut aussi que tu n’ailles point

choisir tes mots sans quelque méprise:

rien de plus cher que la chanson grise

oú l’Indécis au Précis se joint.

Cosí i versi a proposito della rima:

Tu feras bien en train d’énergie,

de rendre un peu la Rime assagie.

S’il on n’y veille, ella ira jusqu’oú?

O qui dira les torts de la Rime?

Quel enfant sourd ou quel nègre fou nous a forgé ce bijou

d’un sou

qui sonne creux et faux sous la lime?

Quelle frasi come: «choisir tes mots (non) sans quelque méprise: rien de plus cher que la chanson grise» sono proprio illuminanti per la tendenza programmatica dei crepuscolari. La quelque méprise non è piú quell’eletta noncuranza che Verlaine ha ereditato, volgendola in musica, dal superbo tono di superamento di Baudelaire, come la chanson grise dei crepuscolari, piú che vivere del prezioso connubio del précis e dell’indécis, riflette un grigio psicologico e un’esitazione fra canto e prosa.

È il grigio di cui parla Moretti:

Non ci son luci né ombre:

il grigio, il grigio che incombe

sui cuori e un tarlo: la noia.

(Che vale?)

Anche per la questione della rima, si può dire che in Verlaine il precetto era giustificato dalla scontentezza nobile, che doveva provare uno spirito cosí musicale, e che dalla musica cavava gli effetti piú essenziali della sua arte, mentre i crepuscolari, dandosi l’aria di trascurarla, ne fanno molto conto per ottenerne un’impressione di sbadataggine, di negligenza:

Talor ti senti men pura

e ti ribelli e non sai

se l’assonanza sia mai

della tua stessa natura;

ma poi piú forte ti senti

per quei tuoi modi piú rozzi

poiché vi avverti i singhiozzi

le aritmíe delle genti;

(Signora Rima)

dice Moretti in una poesia dedicata alla rima. Dunque l’ideale della rima per i crepuscolari è, in fondo, una rima che si assomigli all’assonanza, a qualcosa di traballante, che sia espressione di una psicologia.

Abbiamo visto cosí già attraverso la cultura e le simpatie dei crepuscolari formarsi a poco a poco la loro poetica, che, sotto l’apparenza dell’uccisione di ogni poetica, cela invece una preoccupazione assillantissima. Salvo che è una forma devastata da uno psicologismo ossessionante. Su questo punto di intrusione psicologica si possono individuare i crepuscolari, senza insistere come si fa di solito su malattia, decadenza ecc. Questa intonazione moraleggiante predomina, del resto, in tutti i giudizi sulla nostra letteratura nuova, ed è criticamente nulla: bisogna vedere il gusto, la poetica di questi artisti, e il loro mondo morale non va veduto in sé, squalificandolo moralisticamente, ma in quanto è in coerenza con la loro poesia.

Un primo passo per intendere la poetica dei crepuscolari (che noi teniamo a vedere non tanto in ciò che li distingue, quanto in ciò che li accomuna) consiste nel riportare ad essa il repertorio di cui si servono. Poche scuole hanno un repertorio cosí definito, unitario, riconoscibile: la noia delle domeniche, gli organetti di barberia, i conventi di suore, le stampe ottocentesche, gli interni borghesi[2]. C’è un’ora (anzi ne trassero il nome), c’è un clima dei crepuscolari, cosí come c’è un’ora e un paesaggio dannunziano, carducciano.

Naturalmente questo repertorio deriva dal loro ideale di poesia, che voleva essere poesia minimista ed intimista, poesia dell’umiltà e dell’indifferenza dolente. E quel paesaggio è come il luogo d’incontro di quei sentimentalismi poco formati, tendenti a farsi poesia.

È certo nei minori che il repertorio assume un’importanza di metodo, di chiave, facilitata dalla sua limitazione, ed è proprio il maggiore, Gozzano, che fa pesare meno la dogmaticità del repertorio.

Moretti, Martini, Chiaves si scambiano tra loro mantelli e ciabatte facilmente, e spesso la loro distinzione dipende solo da un tono piú o meno acceso di psicologia. In alcuni è proprio il repertorio, l’argomento solito, il programma, a farsi il sentimento animatore di un componimento, come in Moretti, che spesso non ha altra ragione di poesia fuori della enunciazione della poetica:

Chi mi darà le piccole mezz’ore

buttate via cosí tacitamente...

(Dal barbiere)

E dà proprio una precettistica decadente, una descrizione dei modi tenuti nel costruire:

Ecco dunque la mia prosa, la mia prosa-poesia:...

[…]

Qual mia gioia piú sincera se al gentil visitatore

che mi chiede a caso un fiore, glielo do con una pera?

(Il giardino dei frutti)

E allo stesso modo il Martini:

sempre cantar con un fil di voce...

cercando rime per estenuare...

Tu che mi parli sempre sottovoce

come la buona monaca al soldato.

Il paragone chiarisce, nel senso della parola, il «sottovoce», che il Momigliano aveva attribuito anche al Pascoli: declamazione sottovoce.

Ma per i crepuscolari si tratta soprattutto di programma, non di risultato. Son cosí programmatici e poveri di una vera esperienza, di una sofferenza concreta, di una visione della vita che valga d’essere espressa, che, ripeto, si riducono frequentemente a dire le ragioni del loro tono, a criticarsi:

Raccontiamo, raccontiamo

ma senza dolore

e senza nostalgie,

tanto per passar l’ore

e scacciare la malinconia.

(Binazzi)

È la posizione critico-lirica, riflessa e psicologica, che spiega tanta parte delle loro ricerche tecniche: dare l’impressione appunto di cogliersi nella propria monotonia, di costruire senza impalcature il proprio vuoto spirituale. C’è perciò nei peggiori, come nei futuristi, una ingenuità naturalistica: l’anima è vuota, tediata, e anche lo stile deve essere dunque vuoto, tediato, fotografia di quella condizione di spirito. Ed è una retorica negazione della retorica cui non sfugge interamente neppure Gozzano.

Dal gusto dello stoicismo e dell’antiromanticismo, i parnassiani arrivarono all’impassibilità marmorea; i crepuscolari, dal gusto della confessione, dell’intimità e dal disgusto della retorica, arrivano alla prosa-poesia, ad un sismografo rallentato, smagato dei propri sentimenti. Sentimenti che non trasfigurano potentemente, ma da cui sperano, se detti nel tono della canzone «grigia», e senza passione, una poesia sottovoce, intima e intelligentissima[3]. Cercano una ingenuità per superare la loro reale ingenuità: cosí le piccole cose borghesi, l’infanzia, non servono, nell’intenzione crepuscolare, che a dare, per la loro poeticità di cose quotidiane e di sentimenti non rischiosi di retorica, l’impressione di un’amarezza consapevole, virile.

Partendo dall’intimità autocritica e da questo desiderio del rallentato, che si ottiene con la presentazione sonnolenta delle cose banali, quotidiane, antiretoriche, i crepuscolari si servono spessissimo dell’enumerazione cantilenata senza apparenza di canto, e giungono, o al descrittivismo piatto come Valsecchi:

Finestre cieche. Paraventi chiusi.

Tavoli zoppi. Mobili incantati.

Mummie di fiori. Teschi di bambini...

e cosí via di seguito per una dozzina di versi, o all’ironia indifferente delle sequenze di Palazzeschi:

Lastrucci e Garfagnoni

impianti moderni di riscaldamento:

caloriferi, termosifoni,

Via Fratelli Bandiera...

(La passeggiata)

o alle verbosità secentiste di Govoni (I fiori. Gli uccelli, ecc.). Ma in tutti, attraverso i diversi temperamenti, è lo stesso programma: vincere la poesia nella prosa, nel particolare, nella presentazione apparentemente disinteressata di una realtà comune e disprezzata.

Apparentemente, perché la loro pretesa aridità era invece un sentimentalismo pauroso della forma ed avido di espressione, incapace, in genere, di farsi poesia, e senza il coraggio di diventare romantica, aperta passionalità.

Sono a Cesena, e mia sorella è qui,

tutta di un uomo ch’io conosco appena.

(Moretti, A Cesena)

L’impressione sentimentale è enunciata con un’indifferenza senza sapore e con una retorica evidentissima, che sta proprio nell’aver dato ad una sensazione intima un tono di costatazione senza valore, sullo stesso piano del «sono a Cesena». E subito dopo ritorna all’uggia, alla pioggia, alla domenica, non osando, e non potendo vivificare in nessun modo quell’accenno crudamente psicologico e informe.

Resta cosí definito il centro di questa poetica come bisogno di una difesa dalla retorica e dalla voce grossa, e quindi come ricerca di un lirismo speciale, che si serve dell’usuale, del comune per riuscire nel suo aspetto spassionato.

Si può capovolgere per i crepuscolari la frase del Carducci circa il suo ideale poetico: «la poesia ha da essere almeno un grado piú sopra della prosa», e dire «la poesia deve essere almeno un grado piú sotto della prosa», deve essere una lingua che non si può gridare, quasi appannata dalla premessa della sua inutilità.

Un mezzo, quindi, per fuggire la retorica e l’espressione intensa del sentimento, per raggiungere il tono dell’appassionata indifferenza, della realtà che non vale trasfigurare prepotentemente, è l’ironia melanconica, l’autoironia senza impegno morale e senza profondità di contrasti. Un’ironia tenue, senza punte, fedele al precetto verlainiano:

Fruis de plus loin la Pointe assassine,

l’Esprit cruel et le Rire impur,

dosata fiabescamente con un’intimità noncurante:

– Oh, non avete rimpianti

per l’ultimo nostro convegno

nella foresta di cartone?

– Io non ricordo, mio

dolce amore... Ve ne andate?...

Per sempre? Oh come

vorrei piangere! Ma che posso farci,

se il mio piccolo cuore

è di legno?

(Corradini, Dialogo di marionette)

Ironia e stonatura voluta fra scherzo e sentimentalismo, andatura dinoccolata, tra fanciullesca e irrimediabile, con quelle spezzettature brave, che preludono stranamente a Jahier:

Si discorre d’avvenire?

Si rammemora il passato?

Chi è vivo deve morire,

chi è morto è bell’e spacciato.

(Che vale?)

Anche il vocabolario è fatto di parole non raffinate estetisticamente (aggettivi come «piangevole») ma adatte appunto a dare un’apparenza di sciatteria bonaria e schiva. Finalmente quel linguaggio composto ed incoerente, che criticammo negli scapigliati e nei primi tentativi decadenti, ha un valore a sé, deriva da un ideale poetico formalmente chiaro.

Ciò vuol dire che s’era venuto formando in Italia una vera maturità, che sentiva sempre meno di semplice ribellione.

***

Chi supera, realizzandola in pieno accordo con la sua sensibilità, la poetica crepuscolare, è il piú grande di questa schiera: Guido Gozzano. Fu tentata ultimamente, da Pietro Pancrazi[4], una nuova visione della poesia gozzaniana, insistendo il critico toscano, col suo fare poco impegnativo, sulla sanità del poeta, sulla realtà delle cose, delle donne cantate: donne vive, amore vero, scene di paesaggio realistiche. Voleva il Pancrazi vedere Gozzano «senza i crepuscolari». Ora, se è giusto accentuare la differenza che corre tra Gozzano e gli altri crepuscolari, differenza di forza poetica, non si può distinguere tra un Gozzano crepuscolare caduco e un Gozzano impressionista, lontano dal clima crepuscolare. Ché egli supera sí il programma, come nessun altro di quei tenui poeti. Se si vuole trovare il repertorio crepuscolare in Gozzano, non si trova schematico, guida che si proclama tale ad ogni momento. Si ricava, ma quasi sapido della vita poetica in cui è formato e che non può del tutto abbandonare. Difficilmente, quando Gozzano è debole, il suo programma si impone; si sfascia anch’esso, mentre in Govoni o in Moretti è proprio allora che piú si manifesta. Perché Gozzano costruisce su un piú diretto sentimento, facendoci sentire la sicurezza con cui maneggia gli oggetti del suo mondo borghese, provinciale, dando alla sua ironia un tono piú sostanzioso. Non è solo un giovane borghese annoiato che si confessa ironicamente, che descrive le cose per non saperle sviscerare, che si serve di una cultura per illudere il proprio vuoto, ma è un uomo che sceglie, secondo la sua indole poetica, i modi che esprimano il suo mondo intimo. C’è del duraturo nella poesia di Gozzano, ed in essa acquista un volume concreto la poetica delle piccole cose, dell’accoratezza scorata, della vita tiepida, bagnomaria. Ché allora, incarnata in quella sicura sensibilità, la poetica crepuscolare significa veramente un superamento del dannunzianesimo e del pascolismo.

I capolavori della schiera crepuscolare non sono certo le varie nostalgie domenicali di Moretti o di Martini, ma Paolo e Virginia, la Signorina Felicita, in cui tutto quel repertorio è superato, ma riconosciuto in una certezza lirica.

Quel lirismo cercato dai crepuscolari nelle cose quotidiane, risulta nel senso affettivo con cui Gozzano rievoca a se stesso la modesta tragedia di Paolo e Virginia, con cui fa sorgere e lascia cadere quell’amore che era e non era per la signorina campagnola, la cui immagine potrebbe essere quasi l’immagine della sua stessa poetica: giungere ad una poesia non brillante, povera, esitante fra sensazioni meravigliate e senso della realtà, con un certo che di estremamente femminile, tra grazioso e ridicolo.

Il risultato crepuscolare, la musica lenta, tra sognante e schiva non va oltre quella poesia.

Signorina, restiamo ancora un poco...

I crepuscolari hanno per loro vicini immediati i futuristi, da cui, ad un esame superficiale, sembra dividerli un abisso. In realtà futuristi e crepuscolari non sono che uno stesso momento spirituale svolto in due maniere psicologicamente diverse: da una parte, poetica delle piccole cose quotidiane, e quindi scoratezza e rinunzia; dall’altra, poetica del dinamico, del violento, prepotente accettazione della realtà: predominio in ambedue i casi della piú grezza psicologia, tentativo sentimentale, volitivo, e solo mediatamente artistico.

Mentre i crepuscolari sembrano voler scontare la lussuria vittoriosa di D’Annunzio, i futuristi la riprendono e la moltiplicano freneticamente. Si riannodano come i crepuscolari al Betteloni, ai veristi, agli scrittori di prosa lombardi, e soprattutto alla strana figura di G P. Lucini, letterato mediocre, poeta polemico, propugnatore del verso libero.

Naturalmente di fronte al caos di Lucini i futuristi respirano già un’altra aria, e si avvantaggiano d’una nuova civiltà indigena, che permette ormai anche una migliore comprensione della maturità decadente francese.

È proprio un decadente francese, un irregolare della poesia simbolista, Jules Laforgue, che ci offre il ponte di passaggio fra crepuscolari e futuristi e ci inizia alla formazione di questi ultimi. L’atteggiamento laforguiano (quella che si chiama comunemente la sua ironia metafisica) incise sulla poetica di tutti i crepuscolari piú scaltri, e soprattutto su Aldo Palazzeschi, che si trovò poi a militare nelle file dei futuristi proprio per il suo tono lontanamente laforguiano e per la possibilità di ironia estremamente intellettuale, datagli dal linguaggio futurista.

Egli è solamente la coscienza riflessa, e perciò superatrice, del crepuscolarismo, che disgrega con il suo senso quasi parodistico del prosastico:

Salisci, mia Diana, salisci,

salisci codesto scalino,

salisci, non vedi è bassino,

bassino bassino, salisci[5].

(Diana)

Corazzini aveva detto: «Io non sono un poeta. Io non sono che un piccolo fanciullo che piange», definendo la sua posizione schiettamente crepuscolare; Palazzeschi dice: «Son forse un poeta? No certo (...) Son dunque un pittore? Neanche (...) Son dunque ... che cosa? Io metto una lente dinanzi al mio cuore per farlo vedere alla gente. Chi sono? Il saltimbanco dell’anima mia». Il fanciullo è stato sostituito dal saltimbanco, che ne è come la coscienza ironica.

Nella famosa Passeggiata, la poetica dei crepuscolari che sfruttava i nomi, le tiritere delle cose banali, arriva ad una disgregazione della costruzione, che, animata da un diverso spirito, sembrerebbe futurista. I futuristi infatti non sognarono sempre un diluvio di parole, che adeguasse la nuova realtà. E sono perciò anch’essi sulla scia del Pascoli e del D’Annunzio, e si trovano, come sentimento della parola, alla pari dei crepuscolari.

La volontà di rinnovamento si riduce dunque sostanzialmente all’imposizione di una nuova psicologia: la psicologia dell’uomo moderno, della civiltà meccanica, dell’ultimo prodotto del nietszchanesimo, del pragmatismo, del dannunzianesimo.

Si avvantaggiano, senza darlo a vedere, di certe conquiste filosofiche come quella crociana e bergsoniana (intuizione, immediatezza del linguaggio) brutalizzandole ed inserendole in una visione della vita caotica, materialistica, infantile. Per romperla con la tradizione, sentono il bisogno di spaccare i capolavori dell’antichità, e per reagire all’accademia, diventano un continuo paradosso culturale.

Il loro risultato è perciò soprattutto notevole nel campo sociale e largamente culturale (esasperazione estrema dell’identità arte-vita), ma nel campo specificamente estetico la loro novità è superficiale, limitata: vistosa se si guarda alle audacie, meschina se si guarda alla forza poetica che c’era dietro quegli schiamazzi. Ché spesso in questi poeti, fra tante cose (volontà, egotismo, materialismo quasi mistico), non c’è che un briciolo minimo di poesia. Et tout le reste non è neppure letteratura, ma sfogo di bisogni extraestetici.

Positivamente il futurismo ha finito la distruzione della formazione retorica – con una violenza in sé e per sé cieca –, del gusto ottocentesco, ed ha fatto provare il sapore dell’anarchia ad una letteratura saggia ed ordinata come la nostra. Il futurismo è stato cosí un po’ il martire di un decadentismo in arretrato, ha pagato per tutti, ha giovato negativamente a tutti[6].

Il futurismo ha il valore di un’esperienza poco profonda, ma intensa, di tendenze d’avanguardia che sono state poi allontanate da quel potente antidoto. Vero è che pretendeva superare quella sensibilità simbolista che l’Italia doveva ancora assorbire nelle sue profonde radici, e Marinetti misconosceva quegli autori su cui si era inizialmente formato: soprattutto Mallarmé, contro cui si contrappone spessissimo: «Combatto l’estetica decorativa e preziosa di Mallarmé. Non voglio suggerire un’idea o una sensazione con delle grazie o delle leziosaggini passatiste: voglio anzi afferrarle brutalmente e gettarle in pieno petto al lettore. Combatto inoltre l’ideale statico di Mallarmé con questa rivoluzione tipografica...» (Manifesti del futurismo, II, 219). Occorreva cosí che spiriti piú fini e profondi traessero dall’espressione mallarmeana tutto quello che c’era ancora da ricavare.

Se vogliamo determinare oggettivamente la poetica del futurismo, cercare i modi con cui questi poeti si propongono di costruire, e costruiscono effettivamente, dobbiamo preporre un’osservazione limitativa: piú che di poetica futurista, si dovrebbe parlare di poetica marinettiana, dato che, oltre al primato cronologico, incontestabile, della sua attuazione nel poeta italo-francese, in nessuno dei poeti, che non siano puri imitatori di Marinetti, essa assume il valore nuovo, coerente, futurista che assume in lui.

Tutti i futuristi piú celebri del primo cenacolo: Govoni, Palazzeschi, Buzzi, Cangiullo, Cavacchioli, sono in realtà lontani dall’attuare quella poetica che Marinetti propugnò e attuò nelle sue poesie. I meno originali si riducono ad uno sbiadimento della reale forza immaginifica di Marinetti:

Tu sei dei nostri o Sole,

traguardo d’aviatori!

sifone d’oro

al seltz,

(Cavacchioli)

i migliori sfuggono, proprio per il modo di costruire, all’etichetta futurista, che si vollero appiccicare per polemica, per parere nuovi e chissà per quante altre ragioni di ordine pratico.

Piú che altro attrasse molti l’attivismo di Marinetti, la sua apparente antiborghesia, la possibilità di uscire dalla letteratura, di agire demagogicamente. Osservazione che ci fa sentire quanta sia stata l’importanza sociale del futurismo e come quella poetica marinettiana fosse, per il suo enorme sforzo di connubio fra arte e vita, una morale, una retorica. E infatti, se si viene alle opere concrete, quanta poesia troviamo tra i futuristi? Tutta la loro opera è polemica, programma, definizione, e, al massimo, esemplificazione della poetica marinettiana.

Ridurremo quindi le nostre note soprattutto a Marinetti, e, piú ancora che alle sue opere di poesia, a quei Manifesti, in cui poetica programmatica e poetica in atto coincidono mirabilmente. Del resto anche le sue opere originali mantengono il carattere di poetica (parole in libertà). Anzi noi crediamo che proprio nei Manifesti sia la sua migliore poesia, dato che essa è tale da nascere sopra un motivo di esasperata volontà, sopra un programma che è insieme di poetica e di totale rivoluzione della vita. Tipico è il primo manifesto pubblicato sul «Figaro», tutto pieno di un senso incalzante, quasi religioso, gioioso, giovane, e pur serissimo, con le proposizioni affermative piene di un dinamismo, che è poi già il raggiungimento del programma enunciato. Alla base della poetica futurista è tutta una visione della vita, che vuol essere un’estetica valevole per tutte le arti, mentre d’altronde, per l’estremo decadentismo di questa mentalità, l’estetica vuol essere visione della vita, e perciò estetismo volontaristico, anche se opposto polemicamente all’estetismo fine di secolo.

Marinetti batte continuamente sulla nuova civiltà meccanica e ne costruisce un mito propulsivo della propria poetica: crede cosí di uccidere l’io letterario e la psicologia, sostituendo loro l’ossessione lirica della materia. La nuova civiltà chiede un nuovo modo di poesia (sarebbe dunque una costruzione retorica, riflessa, se già lo stesso programma non fosse poesia attuata), di fronte alla quale sono squalificate tutte le poetiche non solo classiche, ma anche romantiche e decadenti, perché mancanti del carattere «aggressivo». Non importa che nelle opere classiche ci sia tanto movimento in potenza: Marinetti, travisatore passionale di Croce e di Bergson, non ammette né ciò, né l’attualità eterna dell’arte. Egli prende il rovescio materialistico dell’idealismo e intende attualità per attimismo, come prende creazione nel senso di creazione presente dell’autore.

Ma si sa che sono proprio le idee sbagliate che operano piú fortemente in un campo di programmi poetici.

Partendo dalla costatazione della nuova civiltà, la poetica futurista richiede non solo nuovi mezzi espressivi, ma adesione completa a questa nuova vita attivistica, febbrile. E d’altra parte, con il concetto della novità in senso materialistico, richiede un contenuto nuovo, che è appunto nuova visione del mondo (far saltare in aria i ponti delle cose dette).

Bisogna pensare che questa realtà nuova era piú agognata che posseduta, nell’Italia d’allora, avvezza ad una letteratura di paesaggio naturale, e che quindi il mito futurista aveva tanta maggiore forza di novità e di espansione. Quella civiltà meccanica, turbinosa, se non equivaleva, per potere nostalgico, alla Fiandra dei crepuscolari, era però sempre qualcosa da conquistarsi.

Entro questi limiti di poetica-pratica, i principi seguiti nei Manifesti di Marinetti possono ridursi ai seguenti: immediatezza dell’espressione, riproduzione naturalistica, ma attraverso l’immagine di una vita dinamica, futurista, lirismo cercato piú con la tempesta delle parole, riproducenti come il ritmo di quella vita ideale, non in sintesi alla maniera classica, né in suggestioni emananti dal potere evocatore della musica, alla maniera simbolista. Non esprimere, quanto trovare equivalenze di quella realtà caotica, fremente, in ribollimento, donde l’uso nuovo di un’analogia corposa, la provvisorietà cosciente di parole, che cercano di rendere la velocità, il transitorio, la sensibilità numerica, la vita attivistica.

C’è evidentemente alla base di questa poetica una sfiducia nella parola e nel discorso come organismo spirituale capace di espressione. Cosí Marinetti può credere di raddoppiare la forza espressiva delle parole con una rivoluzione tipografica, «con una varietà multicolore di caratteri» e con altri espedienti di suggestione, tutt’altro che estetici ed essenziali al fatto creativo.

Si ricerca un estremo sensualismo, che valorizzi la realtà mutevole, e svaluti la psicologia, il sentimento lirico, in senso tradizionale, di un soggetto che si esamina: «Vengono abolite le antiche proporzioni del racconto, secondo le quali un ferito in battaglia aveva un’importanza esageratissima in confronto degli strumenti di distruzione, delle posizioni strategiche e delle condizioni atmosferiche». E in grazia di questo sensualismo si giustifica, diversamente che nel Pascoli, l’onomatopea, in tutte le sue varietà che Marinetti elenca diligentemente: onomatopea diretta imitativa, onomatopea indiretta complessa e analogica, onomatopea astratta, accordo onomatopeico psichico. E si comprende tutto il «manifesto tecnico», in cui è decretata la morte della sintassi, dell’aggettivo qualificativo, l’adozione del verbo all’infinito, della catena delle analogie («io aspiro a dare il susseguirsi illogico, non piú esplicativo, ma intuitivo dei secondi termini di molte analogie, tutte slegate e molto spesso opposte l’una all’altra»), l’introduzione di elementi sensibili adiuvanti: rumori, peso, odore.

La natura sensuale di questa poetica cerca infine il suo massimo nella sovrabbondanza delle immagini (perciò Govoni dovette piacere a Marinetti): «le immagini non sono fiori da scegliere e cogliere con parsimonia come diceva Voltaire».

E si potrebbe continuare a tirare le conseguenze tecniche, i particolari costruttivi, che emanano da questa poetica sensualistica. Ma a noi interessa aver ribadito l’accento estremamente decadente della poetica futurista e averla trovata, sotto spoglie diverse, vicinissima alla poetica pascoliana, dannunziana, crepuscolare.


1 Tutte le citazioni dall’opera di Moretti sono state uniformate al testo dell’edizione di Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1966.

2 Anche i tenui crepuscolari, però, potrebbero offrire materiale per gli studiosi del decadentismo cruento e sessuale:

... e desiderai di essere venduto,

di essere battuto

di essere costretto a digiunare

per potermi mettere a piangere tutto solo...

(Desolazione del povero poeta sentimentale)

(un gentile bisogno masochista di Corazzini).

Si ritroverebbe anche quel decadentismo a tinte sanguinose di cattolicismo-controriforma, che predomina nei decadentismi stranieri

E caro m’è pensar dov’io mi prostro

Gesú trafitto per le membra ignude

e ancor vorrei pellegrinare in rude

saio e donar mie carni a piú d’un rostro.

(Sonetto)

3 Questo senso dell’indifferente vita non raggiunge mai, se non in Gozzano, il tono spaziato che ha un simile sentimento in Rilke:

Wer jetzt allein ist, wird es lange bleiben,

wird machen, lesen, lange Briefe schreiben

und wird in den Alleen hin und her

unruhig wandern, wenn die Blätter treiben.

4 P. Pancrazi, Gozzano senza i crepuscolari, «Pan» IV, 1936 [ora in Scrittori d’oggi, II, Laterza, Bari, 1946].

5 Vedere anche, per capire i legami dell’atteggiamento ironico con l’adesione di molti poeti al futurismo, Luciano Folgore che si è appunto svolto come poeta parodistico.

6 E non bisogna dimenticare che il futurismo è stata la prima corrente italiana decadente che abbia avuto una risonanza, un’importanza europea. «F.T. Marinetti a, dans une certaine mesure raison de proclamer que l’orphisme, le cubisme, le dadaisme, le simultanéisme, le créationnisme, le surréalisme français, le rayonnisme russe, le vorticisme anglais, l’expressionisme allemande, le constructivisme, l’ultraisme espagnol, le zénithisme jougoslave, l’imaginisme anglosaxon, bref toutes les écoles d’avant-garde dans le domaine littéraire ou plastique doivent depuis 1910 quelque chose au futurisme». (Walch, Poètes nouveaux, Delagrave, Paris, 1934).